venerdì 16 settembre 2016

Il costo del rispetto


Una foto sfocata, probabilmente il frame di una ripresa video, un particolare sfuggito a quasi tutti. Un campo da football, uomini corazzati da armature in plastica e muscoli d'acciaio. Ed uno solo, di quegli uomini, seduto.
In questo post non si parla di sport, anche se si parla di sport.
In questo post parlo di rispetto.

Il numero 7 in maglia rossa è Colin Rand Kaepernick, quarterback dei San Francisco 49ers. Ed è seduto non perché stanco o infortunato, ma in segno di protesta.
Mi chiederai che protesta sia stare seduti ed è proprio qui che la storia si fa complicata.

Milwaukee, Wisconsin. Patria dei Blues Brother e di Fonzie (quello vero, non il nostro sovrappeso Presidente). Non sarebbe un brutto posto dove nascere, tranne che se tua madre, appena maggiorenne e senza un soldo, viene abbandonata da tuo padre prima che tu nasca. Lei bianca, lui nero. Nei tuoi geni è già presente tutta la contraddizione di un paese che adora gli afroamericani come dei del campo da football, sempre che abbiano evitato da giovani i poliziotti dal grilletto facile.
Kaep, come viene soprannominato adesso, viene adottato da una coppia appena nato e passa la sua infanzia in Wisconsin. Anche questo non è un brutto posto dove passare le vacanze, ma d'estate si superano i 40° e d'inverno si scende ben sotto i -20°. Ancora contraddizioni.
Colin cresce velocemente, è alto, grosso, veloce ed intelligente. Eccelle in ogni sport, è il tipo d'uomo che potrebbe fare qualsiasi cosa con il suo fisico. Ovviamente sceglie il football.
Non sto a farti la cronistoria della sua carriera, gente molto più esperta e brava di me ha scritto fiumi di inchiostro su di lui. Ti basti sapere che al suo secondo anno, entrando come sostituto del QB titolare Alex Smith, ha trascinato i 49ers al SuperBowl, poi perso per appena 3 punti. Kaep era il simbolo di quella squadra, di quella città e di tutto il Paese. L'ennesima storia di uno nato nelle peggiori circostanze che giunge ad un passo da sogno.

Oggi Kaepernick è in un baratro profondo. La carriera sportiva, dopo quel SuperBowl, è andata in calando, come una candela bruciata troppo in fretta. Ha perso il posto da titolare, la fiducia del nuovo allenatore e, probabilmente, anche della dirigenza. E' vero, ha un contratto fino al 2020 di 12-15 milioni di $ l'anno, ma la situazione non è per nulla rosea.
Colin lo sa benissimo, ma durante l'inno nazionale in una normalissima partita di preseason (un'amichevole, in pratica), non si alza. Comprende che, nella situazione in cui si trova, sta rischiando il suo futuro sportivo e personale. Non una parola, non un gesto eclatante. Semplicemente resta seduto al suo posto, fino a che l'ultima lunga nota di Star Spangled Banner non sfuma nell'applauso dello stadio.
Il gesto è così silenzioso e minimalista che solo un giornalista, accortosi della cosa, ne chiede lumi allo stesso Kaepernick, nella conferenza stampa dopo-partita. Ed è in quel momento che la cosa assume toni apocalittici per l'opinione pubblica americana.
Kaepernick conferma che non si è alzato durante l'inno poiché non può rispettare la bandiera di un paese che opprime i suoi fratelli neri solo per il fatto che sono neri.

La storia finisce di essere sportiva e diventa politica. Gli Stati Uniti si dividono nelle loro contraddizioni in fatto di censo, razza e diritti. Una parte lo accusa di non avere rispetto per tutti coloro che sono morti per quella bandiera, per le loro libertà. Altri lo sostengono per le sue posizioni contro quella che sta mediaticamente diventando un massacro di giovani neri.

Contraddizioni

Visto da questa parte dell'oceano, la questione sembra fin troppo semplice. Ma per gli americani l'inno è qualcosa di sacro. Ed a questo punto è necessaria un po' di storia. Il nostro inno, ad esempio, richiama a valori di unità, di patria, di storia. L'inno americano è invece dedicato alla loro bandiera. Perché gli Stati Uniti hanno una storia breve, non hanno un passato al quale richiamarsi, l'unica cosa che li unisce è appunto la loro bandiera. E non alzarsi durante l'inno equivale a non rispettare l'intero Paese. 
La loro bandiera e di conseguenza il loro inno è qualcosa di così connaturato nella loro cultura che difficilmente noi europei riusciamo a comprenderlo. Se guardata con attenzione, troverete l'immagine della bandiera a stelle e strisce ovunque, nei caschi, nelle maglie, sui tabelloni dei canestri, nelle spatole per girare gli hamburger. In certi stati, non avere la bandiera che sventola nel giardino davanti casa è peggio che essere segnalati come molestatori sessuali.


La risposta migliore a tutto questo clamore mediatico l'ha data infine un veterano di guerra. Non una persona famosa o influente, ma un semplice combattente. Ha risposto a chi gli chiedeva il suo parere da veterano sulla vicenda con un lungo post sulla sua bacheca che si riassume in due concetti piuttosto semplici.
Il primo è che il rispetto va guadagnato e mantenuto tale. Non si può obbligare qualcuno a portarti rispetto, o ciò che si otterrà sarà solo minor rispetto. Se Kaepernick non prova rispetto per il suo paese perché sente che non stia facendo abbastanza per la sua gente, è giusto che possa dirlo silenziosamente.
E questo è il secondo punto: tutti i veterani che hanno combattuto, tutti i giovani che sono morti, l'hanno fatto proprio per dare a lui la libertà di esternare il suo pensiero, che si può o meno essere in accordo, ma lui dovrà avere la possibilità di dirlo.

Questa è una differenza sottile tra il nostro modo di pensare una nazione ed il loro. Noi pensiamo che lo Stato dovrebbe darci il diritto di fare qualcosa, loro pensano alla libertà di comportarsi come credono. 

Il loro è il Paese più ipocrita del mondo, eppure è proprio su questa ipocrisia che si regge tutto il sistema. Ma non appena qualcuno incrina questa certezza diventa come un pettine che raccoglie tutti i nodi.
Tutti sanno che la violenza genera violenza, che ci sono interi quartieri dove crescere senza entrare in una gang è semplicemente impensabile, dove la polizia è talmente nevrotica da reagire con l'estrema violenza delle armi anche in situazioni ove non sarebbe necessaria. Ma pur di non comprimere una libertà per loro fondamentale (il possesso delle armi), preferiscono guardare dall'altra parte. E' in questa situazione che coloro che ne hanno la possibilità, stanno cercando di fare qualcosa affinché l'opinione pubblica lentamente ripensi alle proprie posizioni.

Carmelo Anthony, Chris Paul, Dwayne Wade e LeBron James.

Kaepernick non è stato il primo e non è stato l'ultimo. Pochi mesi prima di lui quattro tra i più famosi cestisti ha sostenuto un discorso toccante e accorato affinché le cose cambino. E prima di loro furono le Pantere Nere alle Olimpiadi del Messico (tra l'altro imitate pochi giorni fa da colleghi di Colin), Muhammad Ali prima di loro, e da tanti altri sportivi più o meno famosi.

Perché l'america bianca e repubblicana non vede di buon occhio gli afroamericani, se non quando giocano a football, a basket o vincono medaglie d'oro. E proprio loro hanno la possibilità e l'opportunità di cambiare le cose. 
Anche non portando rispetto al proprio Paese.

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